Pagina:Deledda - Il nostro padrone, Milano, Treves, 1920.djvu/167

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Tacquero ancora. La luna brillava sull’alto della gradinata di roccie, che pareva la scala di Giacobbe sospesa fra la montagna e il cielo. Il bosco, pur senza scuotersi, aveva di tanto in tanto un susurro profondo, come in sogno, e fra gli alberi scorzati i cui tronchi si disegnavano su un fondo di orizzonte argenteo, due gridi di assiuolo, uno rauco e triste, l’altro lento e quasi dolce, svolgevano una specie di colloquio melanconico.

— Andiamo! — disse Bruno, alzandosi e avviandosi verso le capanne. Ma l’altro non si mosse se non quando fu solo, e invece di ritornare all’accampamento salì verso la tanca Moro e si avanzò sotto gli alberi fitti, fin dove penetrava il chiarore della luna.

A un tratto gli parve di sentire un rumore di passi e si sdraiò per terra e stette immobile, ascoltando: attraverso i cespugli cinerei delle rose canine vedeva la luna, bassa, vicina a Giove, e gli pareva di sentire come il mormorio d’una fontana. Il rumore dei passi cessò; egli tuttavia non osò muoversi e ricominciò a pensare ai casi suoi.

Sì, era proprio necessario andarsene; la sua vita in quel posto, in quelle condizioni, era circondata di mistero e di pe-