Pagina:Deledda - Il ritorno del figlio - La bambina rubata, Milano, Treves. 1919.djvu/223

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Ma appena fuori della pineta, attraversando l’arenile tutto bianco di luna, mi sembrò di svegliarmi da un incubo.

Respiravo meglio: ero già libero della parte più gravosa della mia angoscia: della paura.

Deposi l’involto sulla sabbia e mi sdraiai accanto. Così piccolo, quell’involto, fra me e il mare sembrava una montagna candida che mi chiudesse l’orizzonte e m’impedisse il passo verso la morte.

No, non volevo più morire: non volevo e non potevo: il dolore stesso cantava in me, adesso, con una voce potente che mi richiamava alla vita. Lagrime ardenti mi cadevano dagli occhi fino alla rena e le vedevo luccicare alla luna come perle. Perché non devo confessarlo? La morte stessa della bambina mi aiutava nella speranza di vivere. Dio me l’aveva tolta per misericordia, non per vendetta, e mi aveva ridonato la voce per difendermi davanti agli uomini: da lui ero già assolto e ribenedetto.