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di lei che vi si affaccia immobile, più scura della sua ombra.
Dapprima non parve badare a me. Mai come in quel momento avevo sentito lo spasimo di non poter gridare.
Mi misi sul quadrato di luce sull’erba, in modo ch’ella potesse vedermi: ella restava immobile. Allora mi slanciai fin sotto la sua finestra, con l’intenzione di andare a sbattermi, a sfracellarmi contro il muro; ma io non avevo toccato questo, ch’ella, d’un botto, certamente spaventata, chiuse la finestra.
Di nuovo tutto fu buio.
Ma io non potevo andarmene così.
Mi buttai a terra, trassi il taccuino, trassi i fiammiferi: scrissi alcune righe pazze, dove confessavo il mio delitto, il mio pentimento, il mio desiderio di perdono; e sotto il mio nome.
Staccai il foglietto e l’avvolsi intorno a un sassolino che lanciai alla finestra. Il vetro si ruppe; parve ingoiarlo.
Io aspettai ancora, ma nessuno apparve.
Allora me ne tornai al paese e di là in casa della zia, alla quale feci conoscere la mia volontà ma anche la difficoltà di coltivare il terreno. Occorrevano dei denari: dove trovarne se lei non ne aveva?