Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/124

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— Credo di aver conosciuto la padrona dello stabile, — dissi, con una voce che mi parve quella di un ventriloquo; e subito mi pentii: avrei voluto ringoiare le mie parole, come un boccone ritornato su per nausea: mi sentii vile, cattivo. Perché avevo parlato? Per far intendere all’altro che capivo il suo gioco? Eppure pochi momenti prima, io stesso volevo parlargli di te, avvicinarlo a te. Adesso sentivo un istinto curioso; come quello che spinge gli animali malati a nascondersi, a curarsi da soli.

Ma, e il gobbo? Se veramente esiste il gobbo? D’altronde Antioco ha lasciato cadere le mie parole e nessuna luce di curiosità si è accesa nei suoi occhi. Evidentemente, egli s’infischia delle mie conoscenze: ed io, come al solito, sono vittima volontaria della mia fantasia.

D’altronde egli s’era d’improvviso rifatto pensieroso, lontano, quasi triste.

Quando la domestica portò il caffè e i liquori, e poi andò a riattizzare il fuoco in salotto, egli disse:

— Sono stato a salutare i Decobra, nella loro villa. Che gente buffa e compassionevole! Ma lei forse la conosce meglio di me.

Io accennai di no, di no, con la testa, e sopra tutto con l’ansia di dirlo ad alta voce; ma egli riprese subito, mozzandomi il fiato con le sue parole: