Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/132

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roco. Non è alta, ma lo sembra, per la sua personcina snella stretta in un soprabitino grigio attillato: grigie sono pure le modeste calze di filo che però disegnano bene le caviglie svelte, e grigio il berrettino di lana che a sua volta fa risaltare il colore caldo, fra il rame e il nero, dei folti capelli: ma quello che più mi colpisce sono le due trecce che scappano dal berrettino, con le estremità arricciate, e che le servono come di sciarpa, di qua e di là del lungo collo davvero di cigno. Il colore dorato della sua carnagione freschissima in armonia con gli occhi e coi capelli, e sopra tutto il mento ovale, con una profonda fossetta, mi ricordano qualche figura di quadro, direi quasi del Botticelli, se le trecce di lei fossero sciolte e svolazzanti serpentine al vento di un azzurro mattino di marzo.

Oggi l’azzurro non c’è: c’è del grigio, come il vestito e il berretto di lei; il vento è freddo, umido, e le mani nude e rosse della ragazza dànno un senso di pena. Ella dice subito, come recitando d’impeto l’inizio di una lezione:

— Mio zio, don Achille, mi manda per dirle che sarebbe venuto lui a trovarla, se non si trovasse a letto con l’influenza.

Pausa. Ella ha dimenticato il seguito; ma poi continua per conto suo:

— E ce n’è voluto, per farcelo stare, a letto. Voleva alzarsi a tutti i costi, per la messa. Poi