Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/172

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sta padre Leone, che scuote la testa con risoluti gesti negativi.

— E?, no, no! C’è del marcio in Danimarca. Non si nega che egli sia un giovane intelligente, colto, simpatico: non si fa per dirne male ad ogni costo; è meglio però, dato il suo carattere e le abitudini semplici di questi luoghi, che egli se ne sia andato: non è aria per lui.

— Ma, infine, potrei sapere che cosa ha fatto? Non per gusto di maldicenza, dico pure io, ma per amore di verità. Dicono che il disgraziato bambino della sua domestica sia suo: altro, di concreto, contro di lui, non ho sentito.

— Lei è buono, signor Conte, — esclama padre Leone; e pare che egli mi dia il mio titolo per rinforzare la sua certezza che io sono un gentiluomo sul serio. – Non bisogna essere troppo ottimisti: l’ottimismo cieco e completo lasciamolo al nostro don Achille: è suo patrimonio e nessuno, neppure il fuoco, se gli arriva ai piedi, può toglierglielo; ma la verità è la verità, pur troppo: e la verità, in questo caso, è che fra giorni la Francesca e il suo infelice bambino saranno cacciati fuori di casa, e se la vecchia Rosa non li accoglie nella sua baracca, dovranno forse dormire all’aperto. Si fa per dire, perché, insomma, la Francesca è una donna che sa barcamenarsi. Sì, — aggiunge, alzando di nuovo la voce severa, — la villa, i mobili, la