Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/194

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anche noi, Agar ed io, il tempo di confessarci.

— Se mi permette, signorina, sto ancora un momento con lei, — dico, rimettendomi a sedere sul muricciuolo e tirandomi sulle ginocchia i pantaloni, come se mi trovassi in un salotto. — Non le dispiace? Si sta tanto bene qui.

Si sta bene, sì: e poi si è in vista di tutti, in modo che male non si può fare né sospettare. Ma realmente nessuno ci vede: la terra tutta sembra sgombra di uomini: è come un cielo senza nubi; e l’occhio del sole è quello di Dio. Egli, sì, giudica e vede: e vede che nel mio cuore non c’è l’ombra del male. Ho voglia di stare con Agar come con un uccello, un albero fiorito, un agnellino tiepido e morbido: per provarne piacere, sì, piacere sensuale anche, se vogliamo, ma senza peccato. Del resto anche lei è ben diversa da quella che la dipingono: tutta tèpida sì, ma raccolta in sé; non mi guarda, non si avvicina troppo: è davvero come la fiamma che brucia per sé stessa e dalla quale dipende da te allontanarti. Riprendo dunque:

— Signorina, se lei però ha da fare vada pure. Io, ozioso, se mi permette, resterò qui fino al ritorno di suo zio. Così le custodirò i cavoli e le rape dell’orto: è un mestiere anche questo.

Ella ride, allora, riprendendo respiro: i suoi denti sembrano di madreperla: ho una voglia cruda, infantile, di battere i miei contro questi