Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/24

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Noemi, che ha preso il suo posto davanti alla tavola, come quando riceve gl’inquilini per i loro reclami, parla sordamente.

– È per questo che devi compatirla. È sola; è una bambina, tu stesso lo dici.

Ma egli s’irrita maggiormente: è quasi in furore, e agita le mani come flagellandosi.

– E io non sono solo? Non sono malato anch’io? Oh, ben più malato di quando tu mi hai conosciuto la prima volta, nella clinica dove era anche lui, tuo marito. Compatirla? L’ho fatto finora; fin troppo. Adesso basta; adesso è necessario finirla, in un modo o nell’altro. Ella mi rinfaccia continuamente la sua dote; mi rinfaccia la povertà della mia famiglia, il lavoro sacrosanto delle mie sorelle, la mia inabilità a crearmi una grande posizione: persino il mio sciagurato titolo, mi rinfaccia, con crudeltà raffinata; e sogghigna come una pazza quando la chiamano «signora contessa». Persino le persone di servizio sanno del suo disprezzo, del suo odio per me. Come continuare così? Adesso dice che vuol tornare a casa sua. Casa di pazzi: tutti pazzi: ma che vada pure. Pazzi, egoisti, malvagi. Che vada pure; all’inferno, al manicomio, dove vuole: altrimenti la finiamo male.

Di nuovo Noemi chiude le labbra: ma un impercettibile fremito l’agita tutta. Egli riprende, più calmo, triste: