Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/25

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– Avessi avuto un conforto nella mia vita. Nulla. Nulla: non ho neppure un amico, una persona che possa intendermi, aiutarmi, o almeno compassionarmi. Il torto è sempre stato mio, sempre mio. Sempre. Fin da ragazzo, neppure mia madre ha potuto capirmi; neppure le mie sorelle, che sono buone e pietose. Sempre mio, il torto: perché amavo la verità, la semplicità, la purezza della vita. Queste cose me le ha insegnate la mia famiglia stessa: eppure in me non le capivano. Il meno che non si poteva dire era che rasentavo la debolezza e l’abulia. Eppure non ho mai commesso un errore volontario: tutto ho fatto con profonda coscienza: lo stesso mio matrimonio non è stato un colpo di leggerezza o di calcolo: leggerezza e calcolo, se vi furono, furono da parte della famiglia di lei. Sono ricchi, volevano un titolo: l’hanno comprato, con la dote di lei: ma io non ho toccato un centesimo, di questa maledetta dote. Se la riprendano; vadano all’inferno. Ho amato sinceramente la Pia: l’ho veduta giocare in riva al mare, ma triste e solitaria: m’è parsa un’orfana, una bambina sperduta: e ho avuto desiderio di prenderla in braccio, di ricercare i suoi parenti. E prima di sposarci ho ben aspettato che i suoi parenti, e sopra tutto lei, mi conoscessero, e non si illudessero sul mio conto. Ma sono essi, che mi hanno ingannato, valendosi appunto delle