Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/289

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lenzio grande del suo covo di malato nascosto, le voci del paese, e veda sfilare nella penombra le anime degli uomini in pena e in errore. Ed egli è ormai lontano da tutti; ma appunto perché distaccato e libero, già vivo di una vita che non ha più legami con la nostra, pronunzia parole di verità nude di ogni paura umana.

E d’un tratto chiude gli occhi: mi sembra che voglia assopirsi, disinteressarsi di me: invece dice, sforzandosi ad alzare la voce, perché anche altri lo senta:

— L’argine deve essere fatto: conosco a Roma qualche persona influente che può aiutarti. Se tu vuoi...

— Se io voglio! – prorompo io, tutto in fiamma. — È il mio pensiero e il mio tormento: è l’unico, il migliore scopo della mia vita.

— Sarà fatto, — egli conferma: — e bisogna che lo sia prima che io vada.

Non dice altro; non parla del suo male, non insiste nello spiegare quale sia la partenza prima della quale l’opera deve essere compiuta; ma sento anch’io, nel silenzio del luogo, voci lontane, che vibrano cristalline come dopo una tormenta quando l’aria è ritornata pura e l’ira di Dio è caduta.

Sì, egli vuole che il desiderio della sua creatura sia presto esaudito, ch’ella dorma tranquilla senza più tremare al rombo delle acque senza