Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/32

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Entrò. Il ritratto era lì, con lo sguardo vivente, con l’orecchio in ascolto. Ella lo fissò, dal basso, come gli animali fedeli guardano il loro padrone. Ne cercava l’approvazione, l’aiuto, l’amicizia; non il perdono; poiché sapeva che ancora una volta, sia pure contro la sua volontà, il suo istinto, il suo stesso dolore, lo aveva tradito: col ricevere Franco, col lasciarsi toccare da lui e dal suo torbido delirio.

Ed egli, di là, dove tutto è davvero chiaro e fissato da leggi invincibili, non perdonava; non per lui, ma per il male ch’ella aveva fatto a sé stessa.

Ella insisté, tuttavia; e un rapido colloquio parve svolgersi fra loro due: o meglio, con quel senso di allucinazione che sempre l’avvolgeva davanti al fantasma, ella sentì ancora il soffio misterioso della voce afona di lui, negli ultimi mesi dopo la lunga malattia che già lo aveva sbranato della sua carne.

«Noemi, io credo in una vita eterna. Ti aspetterò, di là, e ci riuniremo nella gioia che non ha fine. Ma bisogna, per questo, morire senza peccato. Io, sì, credo di farlo, almeno riguardo a te: se anche tu lo potrai, il regno di Dio sarà nostro».

Erano parole precise, quasi matematiche: e rimanevano incise nel cuore di lei come cifre sulle tavole di pietra delle antichissime leggi umane.