Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/41

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andò, per l’ultima volta, nella sala da pranzo, sedette alla tavola apparecchiata, mangiò: ma ricordava, pur senza soffrire, una leggenda del suo paese: i morti che, in certe occasioni famigliari, ritornano nelle loro case dove i superstiti pietosi hanno per essi imbandito la mensa.

E tutto infatti le appariva attraverso un velo di lontananza irreale; il vino s’era pietrificato come un rubino nella bottiglia smerigliata, il pane sembrava di quelli trovati in qualche scavo archeologico: la fruttiera con le arance di croco e le mele di carminio, era dipinta sulla tovaglia. Ed ella aveva perduto il senso del gusto, del tatto, e il sangue le si era seccato nelle vene come l’acqua di un ruscello in estate. Solo le orecchie ascoltavano. A poco a poco questo senso di attesa si fece quasi di desiderio: perché non venivano? Ella era come uno che deve assolutamente partire e aspetta, nella stazione, che si apra lo sportello dei biglietti. Ma non si mosse finché non ebbe, come gli altri giorni, fatti i soliti gesti, ripiegata la salvietta, raccolte e gettate sul piatto le briciole della tovaglia: infine, con un atto quasi di dispetto contro sé stessa, bevette un bicchiere di liquore e andò nella sua camera. E come certi prigionieri che si abbandonano alla loro sorte, cercando solo un momentaneo scampo nel sonno, chiuse gli occhi: ma pochi momenti dopo, uno squillo