Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/68

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a Roma, a piedi, in cerca di lavoro. Volevo fare il giardiniere, o il guardiano di qualche bosco. M’immaginavo tante cose straordinarie. E appena arrivo, stanco, coi piedi macerati come in un mortaio, mi investe un temporale, con vento furioso: e una tegola mi cade sul capo spaccandomi una tempia. Ah, Cristo Signore! Questa era la bella accoglienza della capitale d’Italia. Mai più Paolo ha rimesso piede dove non sia terra sua, gente sua, mestiere suo. Qui sono nato, qui voglio morire. Se vossignoria mi porta via il campo e la casa, ebbene, c’è un campo, lì accanto alla parrocchia, del quale nessuno ci può espropriare.

– Ma, – prosegue, dopo il secondo bicchiere di vino, mentre io mi scaldo le spalle davanti al focolare, – vossignoria crede forse che la mia vita sia stata sempre quella del gatto domestico? Oh, senta, ogni uomo ha la sua storia, e la mia è che con la mia prima moglie non si andava d’accordo. Aspra lei, come una mela acerba, aspro io come un ramo vecchio spinoso. Lei aveva diciassette anni; io trentatre anni più di lei. Faccia un po’ il conto. Poi c’era un’altra cosetta: un suo cugino, rosso e lungo, veniva troppo spesso a gironzolare da queste parti. Pareva la volpe. Allora erano sorbe, che la ragazzina si pigliava da me. Che vuole mai? La natura non si può cambiare. Allora un gior-