Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/84

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lato: poi rise, sollevò il calice e ripetè, imitando il sommesso accento straniero, con beffa ma anche, parve a me, con invidia rabbiosa, la strana parola che sembrava una parola d’ordine fra iniziati ad una lega di piacere, mentre non è che il nostro semplice innocente evviva.

E la stessa parola, dunque, con lo stesso accento, usciva adesso dalla bocca sarcastica del mio ospite, ed egli non si meravigliò che io, pur ricambiandola solo con un muto gesto d’augurio, la intendessi perfettamente.

Per sviare le vaghe ombre che mi circondavano, gli domandai su quale argomento scriveva la sua tesi di laurea.

Egli depose il calice, vuoto, sul tavolino davanti a noi; poi trasse il porta sigarette e volle offrirmene.

– Grazie, – dico io, ripreso da un senso puerile d’imbarazzo: – non fumo.

E per non essere scortese, sebbene non sia, anche mio uso di bere vino o liquori, trangugio il vermut come una medicina. Egli intanto, chiesto il mio permesso, accende una sigaretta, molto profumata, e dopo la prima una seconda, e poi un’altra e un’altra ancora, mentre pur mi racconta l’argomento della sua tesi di laurea. Non si scherza: si tratta di Pietro Aretino e del suo tempo. L’accento del futuro professore è di nuovo serio e convinto, ma anche un po’ voluta-