Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/90

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sapeva benissimo dove abitavo. Gli vado quindi incontro, col mio vestito funebre, e mi sorprende il vedere che anche lui è vestito di nero, con un morbido bavero di pelliccia, che fa più diafano il pallore del suo viso. Ombre azzurre gli cerchiano e ingrandiscono gli occhi. Ha i guanti, la bombetta, il bastone, le scarpe di copale: un’eleganza che mi sembra provinciale e che tuttavia mi desta soggezione. Del resto la sua figura, sullo sfondo grigio della porticina di Paolone, mi dà anche una impressione di fragilità, come quella di una donna o di un essere malaticcio, che ha freddo ma cerca di nasconderlo, che è triste ma lo rivela solo con gli occhi; di uno che ha bisogno di compagnia, di protezione, ma questo bisogno egli tenta di cancellare anche di fronte a se stesso con le righe amare del suo sogghigno. Ecco, dunque, un nuovo aspetto di lui: ma ne provo anch’io un nuovo motivo di simpatia: sento che anche lui è venuto a cercarmi, sotto l’apparenza del galateo, con un intimo desiderio di aiuto: e già qualche cosa ci unisce, in profondità, come le prime pietre delle fondamenta di un ponte: il ponte, forse, che io sogno di costruire sopra questa fiumana della quale entrambi riflettiamo lo scorrere disordinato, oggi buono, domani malvagio.

I suoi occhi, infatti, nel fissare i miei, si accendono come quelli di un povero al quale si