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aveva sprangato la porta: entrò dapprima nella sagrestia, illuminata dal chiarore arancione della luna sopra la finestrina alta, e si rimise le scarpe; poi entrò nella chiesetta, e al barlume della lampadina ad olio sempre accesa in una nicchia, andò giù fino alla porta e la socchiuse. Un’ondata di canti di grilli la investì; sullo spiazzo la luna stendeva un drappo d’argento, e all’orizzonte il cielo aveva ancora come un riverbero dei fuochi della festa.
Ci si vedeva come all’alba: sul terreno si distingueva l’ombra di ogni stelo, di ogni sassolino; pareva che ogni cosa si fosse denudata, coi vestiti stesi davanti, per godersi la frescura della notte. Ed ella camminava cauta, per non svegliare neppure un filo d’erba, per non disturbare il sogno quasi allucinante della notte meravigliosa: e quando, passata la chiesetta, sfiorò un sasso ricoperto di una peluria di musco, trasalì come nel toccare un animale assopito. Aveva ancora il fazzoletto intorno alla testa, con la bocca coperta, e le pareva di sentire davvero un aspro male di denti: inciampò, fece un po’ di rumore, e le valli le rintronarono intorno come ancora percorse dallo scoppio delle mine. Ma si fece coraggio: dopo tutto andava a fare un’opera buona, ad assicurarsi che quello là, l’orfano,