Pagina:Deledda - La giustizia, Milano, Treves, 1929.djvu/12

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Ma ora, pensando che anche Stefano poteva morire, un terrore profondo e un dolore violento e indicibile l’investivano: tutto l’universo gli rovinava d’intorno, accrescendo il buio del suo cervello già stanco. Pensava:

— Se Stene muore io resto solo e assassineranno anche me! Già, quante volte non me l’hanno minacciato? E Silvestra mia? Assassineranno anche lei, povera colomba! E il processo come andrà? E i beni miei a chi resteranno? I beni, i beni miei?

Specialmente quest’ultima paura lo angustiava.

Ma Stefano non morì, ed anzi, verso sera, riavendosi, rise nell’assistere ad una graziosa scenetta.

Per non disturbarlo era stata accesa la lampada nell’attiguo salotto; quindi la luce entrava solo pel vano della porta spalancata, e, seduto in quella larga striscia di luce gialla, don Piane s’ostinava a voler vegliare il figliuolo, che, nonostante le ampie e complete assicurazioni del medico, temeva sempre di vederlo morire da un momento all’altro.

Quando Stefano cominciò a riaversi, entrò piano piano una domestica, animata dalla buona intenzione di condur via il vecchio.

— Andiamo, don Piane, — gli disse con tono persuasivo; e, chinandosi, volle afferrargli le mani per aiutarlo ad alzarsi. — Andiamo, via;