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Pagina:Deledda - La giustizia, Milano, Treves, 1929.djvu/167

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Maria stette pazientemente zitta, ma Stefano, non volendo mancar di rispetto al padre, si alzò, sbattè il tovagliolo sui piatti e lasciò la tavola, sbuffando. Ma rientrò appena don Piane, seguito da Serafina col lume e dai gatti che lo accompagnavano sempre a coda ritta e schiena inarcata, si fu ritirato; e chiese a Maria se, come usavano quasi ogni notte, volevano recarsi dagli Arthabella. Glielo chiese però così svogliatamente che ella rispose, timida:

— Se tu non hai piacere....

— Andiamo, — diss’egli con freddezza.

Uscirono. Era una bellissima notte: la nuova luna, sottile arco di perla gialla, scendeva su un limpidissimo sfondo di cristallo turchino; e per un poetico fenomeno l’astro di Venere, azzurro come una splendida turchese, rasentissimo ne accompagnava il lento tramonto. Nelle viuzze del villaggio, discretamente illuminate dalla tenue luce d’ambra del novilunio, molte donnicciuole, sedute sui limitari delle piccole case nere, guardavano con certo terrore il fenomeno celeste.

Stefano e Maria camminavano silenziosi, distanti l’uno dall’altra, e pareva che, non congiunti da alcun intimo filo, andassero ciascuno per conto proprio sotto la falce d’oro della luna, sotto l’occhio azzurro di Venere; ma, scesi sullo stradale, ella sentì il bisogno d’avvicinarsi al