Pagina:Deledda - La giustizia, Milano, Treves, 1929.djvu/21

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vesperi d’autunno. Dai limpidi vetri del balcone, attraverso le cortine arabescate, il cielo d’occidente, solcato da striscie rosse che sembravano strade tracciate in una cerula lontana pianura, gettava nel salotto una dolce luminosità d’oro pallido. A questo riflesso splendevano di luce rosso-dorata, sempre più dolce e morente, il pianoforte, le cornici dei quadri, i quadri stessi e gli angoli del pavimento a mosaico; un paesaggio ad olio, una pianura in autunno, dalle tinte secche, giallastre, senza figure nè alberi, dal cielo diafano ed alto, s’animava, assumendo ombreggiature e lumeggiature indefinite che gli davano perfetta illusione di realtà.

Fuori soffiava il vento, e il fremito sonoro del noce pareva la voce d’una intera foresta gemente al bacio triste dell’autunno; dietro le cortine, in una lontananza di sogno, le montagne melanconiche si profilavano di viola in quello sfondo di freddo crepuscolo.

Una mosca dal corsetto diafano, che pareva un grano di frumento, dalle ali di velo nero, sfumate in verde ed in violetto, sbatteva contro i vetri con monotono mormorio. La mosca moriva, moriva la luce, la natura, il giorno.

Stefano sentiva una inenarrabile tristezza di agonia in tutte le cose che vedeva, e con gli occhi socchiusi, con tutta la persona abbandonata al dormiveglia d’un sogno melanconico,