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— Va, il padrone ti chiama, disse Ortensia, sorridendo beffarda e trionfante.
— Se mi chiama non è con lo scopo per cui talvolta chiamò te..., e Serafina risalì stridendo come una vipera.
Ancora vestito da caccia, il padrone aspettava ritto vicino alla porta, guardandosi le unghie con calma forzata. Maria s’era ritirata nell’attigua camera.
— Serafina, fra due giorni compiono i tre anni che sei qui. Siccome le faccende domestiche ora non sono poi tante, e gli affari non prosperano, abbiamo pensato mandar via, con nostro dispiacere, una domestica.
Le guance color albicocca della bella Serafina cominciarono a diventar livide, e la lingua guizzò in bocca, pronta a dir parole avvelenate, ma il padrone parlava così calmo, così benigno, che non era possibile rispondergli male.
— Serafina, per non dire che ti mandiamo via malamente, prima d’andartene, stasera, avrai una buona mancia; ma prepara subito le tue robe e vattene.
— Dunque son io che devo andarmene?
— E chi dunque?
— Credevo fosse Ortensia... È inutile mi guardi così, lei, don Istene; e certe scuse le dica alle galline...