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tava, lassù sulla montagna, avido e avvincente come un avoltojo.

Così ella seguiva sognando le sue compagne, senza accorgersi del passaggio. Alttraversarono campi coperti di macchie di rovi e di prugni selvatici, cariche le prime di more lucenti e le altre di bacche violette: passarono fra gruppi di roccie enormi dalle cime forate, battute dal luminoso chiarore dell’aurora. Maria si scosse quando vide le falde della montagna, coperte di boschi che ondeggiavano indorati dal sole nascente. In cima al monte il santuario si profilava grigio fra le roccie rosee di sole, sul cielo azzurro.

Le ragazze s’inginocchiarono e fecero una breve preghiera.

Maria trasse di tasca un pettine, e aiutata dalle compagne si districò e lisciò i capelli; poi ripresero tutte assieme la salita e s’internarono nel bosco di quercie rade e nane.

Soltanto allora cominciarono a incontrar gente: gruppi d’uomini, donne, fanciulli di Bitti e d’Orune, a piedi o a cavallo, scendevano dopo aver ascoltato la prima messa e ritornavano ai loro paesetti lontani, perduti fra i monti selvaggi al nord di Nuoro. Gli uomini, scuri in viso, con fieri occhi neri, vestiti di orbace, di saia, di cuoio, ricordavano i mastruccati ladroni di Cicerone; le donne indossavano costumi ruvidi, di orbace e di panno giallo, non privi però d’una primitiva eleganza.

— Salute, Nuoro! — dissero i bittesi con la loro pronunzia latina.