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d’elci e da chine che in primavera si coprivano d’asfodelo. Metà della Sardegna, fino ai golfi, ceruli nelle serene mattine d’autunno, fino ai vaporosi orizzonti chiusi da muraglie di montagne che l’aurora o il tramonto insanguinavano, si stendeva sotto il Monte. Quando il vento taceva, un silenzio indescrivibile era lassù, sotto quelle mostruose roccie allineate, grigie, enigmatiche.

Sbandati nel bosco un po’ lontano, o, d’estate, nelle chine coperte dai lunghi cespugli dell’asfodelo metà verde, metà biondo, i porci non si vedevano mai, e tanto meno si vedeva il pastore.

Solo quel gran cane bianco, posato sulle zampe come un idolo mostruoso, con gli occhi rossi, fissi lontano, animava la selvaggia solitudine dell’ovile. Alcuni alveari di sughero stavano addossati alle roccie, e da essi, al principiar dell’estate, zio Sidru estraeva il miele amaro.

Egli calava raramente al paese, nel quale possedeva una casetta col cortile davanti, ombreggiato da un melograno e da una vite secolare: sua figlia Sidra saliva quasi ogni set-