Pagina:Deledda - Nel deserto, Milano, 1911.djvu/210

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Lia era agile, era più alta di lui; ma egli dimostrava la forza convulsa dei dementi, e si era aggrappato a lei come un tralcio di rovo. Ella riuscì ad avvicinarsi alla porta, ma non a liberarsi di lui.

— Hai mentito, dunque? No, tu verrai: io sono libero; vuoi che ti sposi.... vuoi, di’, vuoi?...

— Sciocco, sciocco! — ella urlò, e lo sbattè contro la vetrata; un cristallo cadde con fracasso.

Egli trasalì, parve svegliarsi di soprassalto da un sogno; la lasciò e si buttò sull’ottomana, piangendo come un bambino bastonato.

Ed ella se n’andò via di corsa, ansando, come una povera lepre inseguita. L’androne, la scala, lo sfondo verde e azzurro, il giardino pensile, tutto le rimase impresso nella memoria come un quadro spaventoso. Eppure, scampato il pericolo, le veniva da ridere; si sentiva lusingata nella sua vanità di donna, e il pianto dell’uomo vinto le destava anche pietà.

— Egli voleva sposarmi....

Modo gentile di dichiararsi! Ella tremava ancora quando arrivò in via Boncompagni. Il cielo azzurro era sparso di nuvole argentee che il vento di marzo spingeva come vele. Ella ricordò il giorno in cui era andata la prima volta allo studio, e di nuovo ricordò la curiosità che l’aveva condotta laggiù.

— È il castigo: è il castigo! — pensò. Ma a