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stanco di pregare, nauseato dall’orrendo odore della feccia disseccata che tappezzava le pareti della sua tomba cominciò a perdere i sensi.

Ma Dio grande, Dio buono, Dio giusto, non permise che Ardo morisse in quella ridicola tomba.

D’un tratto sembrò al fanciullo che la luce si oscurasse: guardò attraverso la sua microscopica finestra e sulla porta vide fermo un grossissimo cinghiale, un cinghiale selvaggio, feroce, dall’irto pelame a striscie brune, a striscie bianche e color caffè; gli occhi erano rossi e scintillanti...

Fu sulle prime un nuovo spavento per Ardo: il cinghiale entrò nella capanna e si diede a frugare col muso fra la cenere, tra il fieno, grugnendo in un modo terribile: aveva fame.

— Eccomi spacciato, — pensò Ardo ridiventando vivo. — Il cinghiale sfascerà la botte e mi mangerà... Ma tanto meglio dunque! Mi risparmierà una morte ben più crudele.

Incrociò le braccia sul petto, sempre pronto a morire, e aspettò.

Ma perché ad un tratto quella croce si sfece, perché le guancie di Ardo diventarono rosee, ardenti, e i suoi occhi scintillarono di speranza?

Aveva forse veduto venire qualcuno in suo aiuto, suo padre forse? No: solo il cinghiale passando vicino alla botte aveva introdotto nel suo buco