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bianchi, poi guardò che effetto avevano fatto le sue parole sulla bambina.

Ai suoi tempi don Martino era stato a Roma, era giunto fino al Papa, aveva avuto da lui un rosario che conservava come una reliquia e, appena di ritorno al suo villaggio, poeta come era sin da bambino, aveva composto un poema in Logudorese, narrando le bellezze della Eterna Città, la sontuosa maestà del Vaticano e la bontà del Pontefice.

Cicytella l’ascoltò attentamente, guardò, sorridendo, il signor Azzo e il signor Giacomo che non cessava di fissarla; poi, senza scomporsi, disse:

— Don Martino, io non lascerei la mia capanna per mille palazzi...

— Neanche per vedere come son fatti? — domandò Azzo.

Cicytella trasalì, chinò la testa e mormorò: — Ma se lo so! —. E con la sua ingenuità confessò le strane idee che spesso l’assalivano nella sua verde solitudine, come lontane ed indistinte ricordanze che non poteva afferrare.

Ancora uno sguardo, a quelle parole, fu scambiato fra Azzo ed il pittore, un lungo sguardo pieno d’interrogazioni e di speranze.

— Oh, se ciò fosse?... — pensò Giacomo. — Se ciò fosse?...

Conversarono ancora a lungo con la fanciulla: