Pagina:Deledda - Nostalgie.djvu/134

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sarci. Ma non offenderti, Antonio; tu non sei uno di quelli: tu eri e sei per me qualche altra cosa, ed ora, svanito l’incanto dei sogni vani, resti per me qualche cosa che è al di sopra di questi stessi sogni: tu eri e sei per me l’uomo, l’uomo buono e leale, l’amante giovane e dolce che la fanciulla pone come una statua meravigliosa in mezzo al giardino dei suoi sogni. Ma il nostro giardino, Antonio, il nostro giardino è arido e triste. Noi eravamo ancora troppo poveri per unirci e formare il nostro giardino di amore. Sposandoti e venendo a Roma io avevo gli occhi bendati; mi figuravo che le nostre due piccole fortune, messe assieme, rappresentassero a Roma ciò che rappresentavano al mio paese! Troppo tardi mi accorsi che, invece, esse rappresentavano appena il pane quotidiano. E di solo pane, non si vive: si muore, o per lo meno ci si ammala gravemente se non si è abituati a tale regime. L’amore, per quanto grande sia, non basta a guarire un malato. Ora, ti ripeto, io sono malata; l’urto della realtà, la durezza del pane quotidiano, ha prodotto in me una specie di anemia morale! E il male si è fatto così acuto che io non posso più andare avanti così. La vita a Roma, per me è un martirio. Bisogna che, per qualche tempo, io fugga, mi ritiri nel mio covo, come si dice facciano le bestie ferite, e mi curi e sopratutto mi abitui a pensare di dover vivere così.

«Antonio mio, sforzati di comprendermi, anche se io non riesco a spiegarmi come vorrei. Lascia che io ritorni nel mio nido, presso mia madre, alla quale farò credere d’essere realmente ammalata e di aver bisogno dell’aria