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atto terzo 247


Leccardo. Sempre su gli amori!

Don Flaminio. Se ti scaldasse quel fuoco che scalda me, diresti altrimenti.

Leccardo. Io credo che l’amor delle femine scaldi; ma l’amor del vino scalda piú forte assai.

Don Flaminio. Che novelle?

Leccardo. Dispiacevolissime. Don Ignazio avendo trattato col padre, ave ottenuto Carizia. Ha mandato presenti sontuosissimi; or s’apparecchia un banchetto di rari che s’han fatti al mondo. Le principali gentildonne addobbano Carizia; e se negletta parea cosí bella, or che fiammeggia fra quelli ori e quelle gioie par di bellezza indicibile.

Don Flaminio. Non mi recar piú noia con le tue parole che mi reca la presente materia.

Leccardo. Mi dispiace che per mia cagione non sia vostra sposa, ché la vostra tavola mi sarebbe stata sempre apparecchiata. Or temo il contrario: ché come vostro fratello saprá che son stato dalla vostra parte, mi ará adosso un odio mortale, e sarò in capo della lista di coloro che saranno sbanditi dalla sua casa.

Don Flaminio. Io non son cosí abbandonato dalla fortuna che, aiutandomi, Carizia non possa divenir mia moglie. E se darò ad intendere a don Ignazio che abbi goduto prima di Carizia, con manifesta speranza mi guadagnarò le sue nozze. Onde vorrei che la notte che viene mi aprissi la porta di sua casa e mi facessi entrare, e mi prestassi una di quelle vesti che portò il giorno della festa e alcuni doni mandati da lui.

Leccardo. Cacasangue! questa è una solenne ribaldaria, e discoprendosi io sarei il primo a patire la penitenza, e non vorrei ch’avendomi io vivo mangiati molti uccelli cotti in mia vita, che or le cornacchie e corbi vivi se avessero a mangiare me morto sovra una forca.

Don Flaminio. Tu sai che mio zio è viceré di Salerno: scoprendosi il fatto, saprá che il tutto arai operato per mia cagione e non offenderá te per non offender me.

Leccardo. No no, la forca è fatta per i disgraziati. La giusticia è come i ragnateli: le moschette piccole com’io ci