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i più scorretti nella lingua, perchè scrivono canzoni non già come quelle del marchese di Mantova, che incantano o fanno piangere i fanciulli e le donne, ma sì bene certe acutezze che a foggia di blande spine trapassano l’anima, e la feriscono come saette, lasciando intatto il vestito: e un’altra volta cantò:

Morte vieni sì celata
     Ch’io non senta il tuo venir,
     Onde il gusto del morir
     Non mi torni a vita odiata.

Ed altri versi e strambotti di questa tempera, che cantati incantano, e scritti avvelenano. E che dirò poi quando si applicava a comporre un genere di versi che in Candaia si usava a quei tempi, e che dai poeti erano chiamati Seghidiglie? Oh come balzavano i cuori di gioia, le risa abbondavano, nasceva uno sconvolgimento nei corpi come se fossero stati posti nell’argento vivo! E perciò dico, o signori miei, che tali compositori dovrebbero con giusto i titolo essere rilegati nelle isole dei Ramarri. Ma la colpa non è no dei poeti, ma di quei semplici uomini che li celebrano, e delle sciocche donne che loro credono: se io fossi stata quella buona matrona che dovevo essere, sarebbero riusciti inefficaci per me tanto elucubrati concetti, nè avrei creduti veri quei detti: vivo morendo, ardo nel gelo, fremo nel fuoco, spero senza speranza, vado e resto, con altri impossibili di questa natura, dei quali i loro scritti sono pieni zeppi. Che diremo poi quando promettono la fenice di Arabia, la corona del sole, le perle del sud, l’oro del Pattolo, il balsamo di Pancaia? Qua è dove distendono più la penna, poco loro costando promettere ciò ch’è parto unicamente dalla fantasia, nè si può adempire in alcun tempo! Ma dove trapasso io mai? Oh me disgraziata! quale follia o quale frenesia mi porta a raccontare i mancamenti altrui, avendo tanto di che dire dei miei! Lo ripeterò, ahi sfortunatissima di me, ahi sventurata? chè non fui già sedotta dai versi, ma dalla mia inesperienza e simplicità. Non m’intenerirono le serenate, ma sì bene la mia leggerezza e la mia crassa ignoranza apersero la via, e sbarattarono il sentiero a don Claviscio; chè il nome è questo del perfido cavaliere. Si riseppe che coll’opera mia una e più e più volte passò nella stanza della mia signora, la quale tanto fu presa di lui, che non ostante la disuguaglianza del grado, promise di averlo a marito: e senza informarne i parenti se ne fece la scritta, e si conchiuse la cosa per modo che più non potea disfarsi, e nemmeno tenersi occulta. Il vicario, che per buone ragioni cre-