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ragionamento settimo 139


Dattero. Gli anici confetti debbono esser come palloni da carnesciale.

Betto. Che carnesciale e che palloni! Quegli de’ gran giganti son grossi come tutto Firenze.

Dattero. Oh che buone pere moscatelle!

Betto. Io dico le quaglie, le pernici e i fagiani: oh che stidionate grande!

Dattero. Non si debbe trovare sí grande stidioni.

Betto. Ben be’, io dico che egli v’è ogni cosa a proporzione, insino agli aghi da cucire.

Dattero. I moscioni debbono esser come balene; oh che gran bestie debbono esser gli elefanti!

Betto. Pensatevelo voi, che fanno i castelli sopra di tavole! Vi stanno dentro poi due giganti, a trarsi di balestra l’uno all’altro.

Dattero. Dove, domin, cavate voi sí pazze invenzioni e come potete voi imaginarvele?

Betto. Peggio è crederle. Io sto talvolta in una certa materia fissa, che è spezie d’umor malinconico, e formo mondi, e sí grandi, e sí gran cose che io ho paura di loro e mi son tastato il capo dieci volte s’egli era intero o se pure egli era crepato per mezzo.

Dattero. Quei sanesi diranno ben che queste cose sien di quelle col manico.

Betto. Le piaceranno forse loro. Pensate, se voi gli vedessi poi fabricare un campanile dove ve ne sta sopra, dentro e su per i ballatoi le centinaia! Le son torri, quelle che io fo, che non capirebbono per larghezza in questo mondo né per altezza; le passano i cieli, e pesan tanto che le sfondano questo nostro emispero.

Dattero. Debbono aver lunghe miglia, che un di noi non le caminerebbe in un anno.

Betto. Se voi vivessi quanto mille uomini e corressi la posta, non andreste un terzo di miglio. Non dite altro, se non che le son sí gran cose le non si possano né dire né scrivere. E qui messer Giovanni Unghero borbotta poi d’una loggia grande, d’una montagniuola, d’una saletta e d’un viottolo!