Pagina:Drigo - La Fortuna, Milano, Treves, 1913.djvu/295

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che per averla bisognava passare sul cadavere di Elmìr, tutti insieme infierivano contro di lui e lo flagellavano di colpi.

Egli si batteva selvaggiamente; difendeva con freddo furore prima che la sua vita la salvezza di Biancofiore: quasi solo contro dieci, erto sul cavallo, pallido e scapigliato, vivente baluardo a colei che non doveva essere offesa. Pareva che il pensiero di lei avesse dato al suo corpo mortale la divina invulnerabilità e la forza degli antichi eroi. E anch'ella, la giovinetta, aveva tratto il pugnale, e in silenzio preparava la sua mano perchè non tremasse. Ad un tratto Elmìr si lasciò sfuggire la spada e cadde riverso sul cavallo; una pugnalata gli aveva squarciato il braccio, ed il sangue sgorgava a fiotti dalle vene recise. Con un urlo Biancofiore si gettò verso di lui, ma i banditi le furono sopra, ed uno di essi la ghermì alla cintura, un altro si curvò sghignazzando su Elmìr per finirlo. Già l'arma nuda balenava sul capo di lui quando si udì un fischio lungo, acutissimo, di tra gli alberi. Fulmineamente, gli uomini neri abbandonarono la preda, si gettarono nella macchia e scomparvero.

Elmìr era svenuto. Biancofiore, col pugnale in pugno e gli occhi annebbiati d'angoscia, gettò intorno uno sguardo smarrito. Solitudine. Il galoppar dei cavalli si allontanava. La fanciulla fece un cenno ai pochi uomini che le restavano; in un baleno sciolse dalla cintura la sciarpa azzurra e ne fasciò il braccio squarciato di Elmìr, poi pianamente lo sollevò di