Pagina:Drigo - La Fortuna, Milano, Treves, 1913.djvu/67

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Bisognava traversare il villaggio, la piazza. Tutti erano già rientrati nelle case a cenare ed i fuochi brillavano nelle basse cucine affumicate.

Nella piazza due facchini e una grossa comare accatastavano su di un carretto alcune vecchie ceste. Nessuno di essi la riconobbe.

Rosa traversò il marciapiede senza voltarsi. Uno dei facchini vedendola così discinta e stravolta le sussurrò alcune parole volgari e sputò.

L'altro prese a camminare dietro a lei sullo stretto marciapiede. Ed ella si mise a correre ancora più forte, credendo sempre di sentire dietro a sè quel passo, e non sentiva invece che il batter del suo cuore.

Dove? dove?...

Ah! ecco il sentiero che conduce alla sua casa. Il piede si fa più fermo, il respiro meno affannoso. Ma ancora quel passo!...

Ella riprende a correre. In pochi istanti è sul poggio, nel cortiletto, sotto al pioppo che si inchina. Senza fiato, livida in volto, si appoggia al muro per non cadere.

Nel cortile nessuno. La ferisce l'odore della concimaia.

Fa quasi buio. È una sera ventosa, quasi fredda.

La porta della cucina è chiusa, ma, dalla finestra, tagliata a piccoli rettangoli dell'inferriata, attraverso ai vetri, ella spia dentro un allegro fuoco brillare, e le fette dorate di polenta abbrustolirsi sulla pietra del focolare, e i parenti intorno al desco, intorno alle scodelle fiorate, che aspettano la cena.