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Giunta Provinciale e del Presidente della Camera, al quale disse che era commosso dall’accoglienza fattagli e lo pregò di dirlo ai deputati.

Dopo una gita a Frascati, nella quale fu ospite del signor Felice Ferri, ed ebbe nuove dimostrazioni dalla cittadinanza, Garibaldi andò al Quirinale. Ve lo condusse il general Medici nella sua carrozza particolare, insieme con Menotti. Sulla porta della Reggia, moltissimi ufficiali dell’esercito, che avevano combattuto con Garibaldi, gli fecero ala e lo acclamarono.

Garibaldi scese, aiutato dai generali Dezza e Medici, e fu introdotto nel quartiere del Re a pian terreno del palazzo, e venne subito ricevuto.

Quando Vittorio Emanuele e Garibaldi si videro, salutaronsi con effusione di vecchi amici separati da lungo tempo. Garibaldi presentò Menotti al Re, il quale dissegli: «Ci siamo già visti nel 1859, quando venne a Brescia al quartier generale con una lettera di suo padre»

Il Re fece entrar Garibaldi nel suo studio e rimase a parlare con lui più di venti minuti; non fu parlato di politica; il discorso si aggirò sui lavori del Tevere e sulla bonifica dell’Agro Romano, che formavano il pensiero costante del Generale.

Terminato il colloquio, il Re aprì la porta e chiamò Menotti, perché andasse ad aiutar suo padre ad alzarsi, e quindi accompagnò Garibaldi alla porta della sala. Tutti e due erano commossi, tutti e due erano lieti di essersi riveduti a Roma, tutti e due capivano l’importanza che aveva il fatto della loro riunione in quell’antico palazzo dei Papi.

Garibaldi si trasferì alla villa Severini, ma anche là era assediato di visite. Vi andarono il Presidente del Consiglio, il ministro Saint-Bon e il Sella, ripetutamente, per discutere del disegno rispetto ai lavori del Tevere, e alla bonifica dell’Agro Romano. Garibaldi voleva che alla confluenza dell’Aniene col Tevere si scavasse un canale che giungesse al mare, per dare a Roma maggiore importanza, e assicurarle maggior commercio, e che intorno alla città si bonificassero subito vaste estensioni di terreni. Il Sella caldeggiava quei lavori, ma non ne vedeva l’urgenza. Secondo lui, prima che Roma prendesse un grande sviluppo, bisognava costruire le case per accogliere la nuova popolazione. Per questa divergenza d’idee il Sella ricusò di entrare nella commissione che nominava Garibaldi per discutere quegli studi, ma le promise il suo appoggio.

Garibaldi andò in Trastevere, alla Piazza di Sant’Apollonia, nella sala elettorale del 5° collegio, per ringraziare gli elettori, e sedutosi in mezzo a Cairoli, a Fabrizi, a Coriolato e ai notabili del rione, svolse l’idea che gli martellava il cervello, quella dei lavori del Tevere e dell’Agro Romano. Il Trastevere fecegli una bella dimostrazione.

Un pranzo gli offrirono pure le Società Operaie di Roma, al Corea. Vi andò accompagnato dal Sindaco e da Menotti. Camminava a stento con le stampelle, e salito sul palco disse:

«Figli del popolo! io mi sento fortunato di essere oggi fra voi, anch’io figlio del popolo. Sapete che ho viaggiato molte regioni del mondo e posso dirvi che gli uomini dalla destra incallita trovano ovunque lavoro e pane.

«In America su cento emigrati, novantanove operai trovano lavoro; mentre dieci letterati sono costretti a dividere un tozzo di pane con essi. Anch’io sono stato operaio, ho lavorato molto. Oggi però, affranto dagli anni, non posso più lavorare.

«Ascoltate però un consiglio da questo povero vecchio: Fate i vostri figli operai; è un consiglio che vi dà un amico dell’anima.

«Il fabbro-ferraio educhi il proprio figlio allo stesso mestiere; i Re di Francia di un tempo educavano i propri figli al lavoro, all’arte.