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Pagina:Emma Perodi - Roma italiana, 1870-1895.djvu/137

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«So che desiderate da me qualche altra spiegazione, ed io ve la do, benchè non sia un parlatore. Si dice da molti che l’operaio non deve immischiarsi nella politica: Questo è un principio falso. Politica vuol dire affare dei più. Noi, popolo, siamo i più, ed io vi esorto ad immischiarvi nella politica. Avete presente come quel benemerito cittadino di Benedetto Cairoli abbia presentato un progetto di legge per l’estensione del voto. Rendiamo omaggio al suo patriottismo e assicuratevi che quando il voto dell’on. Cairoli possa essere appagato, le cose andranno meglio, ma meglio assai.

«Un’altra cosa ho da dirvi. Vi si fa credere da molti che io sia meno rivoluzionario di quello che sono stato pel passato. Ciò è falso, falsissimo; io sono e sarò sempre rivoluzionario quando si tratti di cambiare dal male al bene.

«V’è ancora un’altra questione sulla quale voglio tenervi parola, ed è la questione religiosa. Io nutro per i Romani un affetto particolare. Si ricordino che si tratta di entrare in un terzo periodo della vita sociale: quello dalla menzogna al vero.

«Si ricordino i Romani come i loro antenati introdussero da principio l’incivilimento con le armi. Dipoi venne il Papato. E qui è giuocoforza il confessare, che sul bel principio il Papato fece del bene assai, ma oggi però ha fatto il suo tempo.

«Romani! la questione del Papato è una questione che deve marciar da sé. Si scioglierà da se stessa; con la violenza non mai.

«Non mi rimane ora che a ringraziarvi di cuore per avermi voluto presente a questa riunione.

«Romani! siate sagaci, grandi e fermi come gl’Inglesi, che non si sgomentano mai. Vi sovvenga che gli antichi Romani, vinti nelle terribili battaglie della Trebbia, del Trasimeno, di Canne, marciavano orgogliosi alla volta della Spagna e Annibale stava osservandoli dagli spalti delle mura di Roma.

«Non ho altro da dirvi».

Garibaldi, dopo di aver pronunziato questo discorso così conforme, rispetto alla questione del Papato, al programma del Governo di Vittorio Emanuele, si sedè e accettò una pasta e un mezzo bicchiere di Marsala. Dopo cinque minuti di raccoglimento, alzò il bicchiere e bevve a Roma «iniziatrice della fratellanza dei popoli». Mille voci risposero al brindisi, e quando stava per andarsene due cittadini gli presentarono il cappello, che portava nel lasciar Roma nel 1849.

In quel tempo i dolori artritici gli davano un poco di tregua, e Garibaldi ne profittava per uscire di frequente. Una mattina, invitato dal Sella e dal Breda, capo della società veneta, assuntrice dei lavori, andò a visitare il nuovo palazzo delle Finanze, che già aveva raggiunto il primo piano, e profittò anche di quella occasione per parlare dei suoi disegni di risanamento di Roma. Ho detto che quei disegni erano divenuti per lui un’idea fissa, ed è vero; ma in fondo a quell’idea c’era un desiderio potente di rigenerazione della città. Non avendo potuto rendere con le armi Roma all’Italia, ambiva di legare il suo nome a qualche grande opera di somma utilità per questa Roma, che aveva allietato di sogni gloriosi la sua giovinezza.

In quei giorni, più che di Garibaldi, si parlava a Roma del principe Torlonia. Egli aveva ottenuto il grande diploma d’onore a Vienna per le sue bonifiche, e lo Spaventa, ministro dei lavori pubblici, aveva fatto una gita in Abruzzo ed era rimasto meravigliato della grandiosità dei lavori compiuti. Silvio Spaventa ne riferì al Re, e fu stabilito di far coniare una medaglia d’oro al principe Alessandro Torlonia in memoria della grandiosa e filantropica opera compiuta da lui. Appena gli fu comunicato il decreto e consegnata la medaglia, il principe chiese un’udienza al Re. L’ottenne, e andò al Quirinale, ove Vittorio Emanuele lo trattenne lungamente, e seppe con quel linguaggio caldo, opportuno e sempre ispirato ad alti sentimenti, conquistare l’animo del patrizio romano. Erano due grandi intelligenze che si trovavano di fronte, e il Re intuì che di uomini