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Il 1876.
Una specie di panico invase Roma e le altre città italiane appena i giornali annunziarono che il Re nel ricevere i generali al primo dell’anno avesse detto: «Ringrazio l’esercito dei suoi augurii. Spero che tutti siano pronti e che nei fatti, che avverranno e ai quali l’esercito non sarà estraneo, esso possa acquistarsi nuova gloria».
Il pubblico non si era accorto che negli ultimi tempi Vittorio Emanuele, più che per il passato, dava a ogni suo discorso una certa intonazione marziale e si sgomentò di quel palese accenno alla guerra, mentre un focolare d’incendio era già nei Balcani. Per due o tre giorni dunque si fecero le più strane supposizioni, finchè la Gazzetta Ufficiale non stampò che le parole del Re erano state erroneamente riferite, e che S. M. aveva detto invece: «Vedo con la massima compiacenza i progressi continuamente fatti dall’esercito; gli auguro come sempre gloria ed onore, ed ho fede che se qualche nuovo fatto ne presenterà l’occasione, l’esercito corrisponderà alla mia fiducia ed a quella del paese».
Fra una versione e l’altra v’era molta differenza, ma è probabile che le parole del Re, dopo l’effetto che avevano prodotto, fossero state un poco variate e che la prima lezione sia la vera.
Peraltro se l’Italia non si trovò impegnata in una guerra micidiale assistè, o meglio, combatte una lotta tremenda di partiti, non scevra di vittime.
Abbiamo veduto l’esito delle elezioni sul finire del 1875. È facile immaginare come il partito, che da quelle riuscì tanto rafforzato, cercasse di rovesciare l’altro, che era al potere da quattordici anni. Il Presidente del Consiglio, per una cecità, che adesso ci appare quasi frutto della fatalità, dopo aver aperta la questione del riscatto delle ferrovie ed aver conclusa la Convenzione di Berna, lascia che per tre lunghi mesi l’opposizione ecciti il paese con il fantasma di quella grandiosa ope-