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L’on. Morana fu molto mite nello svolgere la sua interrogazione, che era questa: «La Camera persuasa della necessità che la tassa sul macinato non sia perturbata, e convinta che il Ministero ne abbia, con le sue esagerazioni, compromessa l’esazione, passa all’ordine del giorno».

L’on. Minghetti rispose che la questione del macinato non era quella predominante; la vera questione esser quella del riscatto e dell’esercizio delle ferrovie, ed accusò il regolamento che aveva, con le sue lungaggini, impedito che una quistione così grave fosse discussa per riflesso. Egli chiese che la discussione della mozione Morana fosse rinviata a quando almeno gli uffici della Camera avessero esaminato il progetto ferroviario. L’indirizzo politico del paese non potersi mutare su una quistione vaga e indeterminata. Per questo non poteva accettare la discussione della mozione Morana. Cosi non poteva andare avanti, perchè da certi sintomi aveva avvertito che l’antica maggioranza, che lo aveva fino a quel giorno accompagnato e sorretto, incominciava a tentennare: «Ebbene, disse, vedrò se posseggo ancora la sua fiducia nel voto di fiducia che le chieggo. Poniamo le questioni chiaramente e nettamente. È necessario che il paese sappia chi va via e perchè va via; chi viene e perchè viene».

L’opposizione non gli dette tregua; il Depretis, qual rappresentante della vecchia opposizione, il Correnti del Centro, il Puccioni, dei dissidenti toscani, non ammisero che la discussione della mozione fosse rinviata.

La Camera era impaziente, agitata; voleva giungere al voto e prestava poca attenzione, e interrompeva l’on. Minghetti, il quale non chiedeva altro che la quistione non fosse spostata e che si votasse sulle ferrovie. «Se in ogni caso - concluse - non avremo più la vostra fiducia, ce ne andremo, ma possiamo dirvi con orgoglio che lasciamo il paese in pace ed in ottime relazioni con tutte le altre potenze; che vi lasciamo le finanze in buono stato col pareggio raggiunto. Abbiamo la soddisfazione di aver fatto lealmente quanto abbiamo creduto e potuto per il bene della patria. Vedremo quello che sapranno fare i nostri successori». Queste parole provocarono un applauso prolungato dai banchi della Destra e dalle tribune, ma il forte lottatore soccombe. La sua domanda di rinvio fu respinta con 242 no, e 181 si. Il Minghetti cadeva e con lui cadeva il governo della Destra.

Vediamo ora quali erano state le ultime cause di quella caduta.

Prima di tutto i dissensi nel campo del partito, che era al governo, le elezioni non favorevoli, poi il progetto di riscatto delle ferrovie, che per una quistione di campanile aveva staccato i toscani, sostenitori della Società delle Romane e i quali, passato il primo entusiasmo per Roma capitale, vedevano Firenze spogliata di tutte le risorse economiche, coll’accentramento in Roma non solo dei ministeri, ma di molti altri uffici, e per ultimo una sequela di piccoli incidenti e di pettegolezzi.

L’on. Puccioni volle, nella seduta della Camera, lavare i suoi amici dall’accusa di essersi scissi per quistioni d’interessi locali, ma la scissura da quelli fu motivati. Il municipio di Firenze era sulla china del fallimento e il Peruzzi, capo della deputazione toscana, era appunto alla testa del municipio.

Nulla dunque di più naturale, che lusingato forse dalle promesse di quelli che sarebbero saliti al governo, egli persuadesse i suoi amici a compiere la ibrida coalizione, senza riflettere alle conseguenze. Oltre che dalla quistione degli interessi i toscani, furono mossi a votare insieme con la Sinistra anche da un ripicco. Firenze, che era sempre stata custode delle libertà, era accusata da un pezzo di guelfismo. Il Peruzzi e il Toscanelli si erano mostrati in tutte le quistioni fra la Chiesa e lo Stato