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aveva rimpiazzato il marchese Caracciolo di Bella. Il Gadda peraltro aveva, prima di partire, inaugurato la grande aula consiliare del palazzo Valentini, e quella festa era stata seguita da un ricevimento nel quartiere del Prefetto. La partenza del Gadda dispiacque. Era stato sei anni a Roma e si era guadagnato molte simpatie; una folla di conoscenti andò alla stazione a salutarlo e ad esprimergli il rincrescimento di perderlo.

In primavera vennero a Roma il principe e la principessa Carlo di Prussia, che furono trattati dalla Corte più come parenti che come amici. Abitavano all’albergo Bristol, preferito sempre di poi dai Principi di Germania. Poco dopo il loro arrivo, giunsero pure da Napoli il Re e la Regina di Grecia insieme con i loro figli, col Principe e la Principessa ereditari di Danimarca e col Principe di Glücksburg, fratello del re Cristiano IX, cioè loro zio. Avevano un seguito numerosissimo e abitavano in piazza di Spagna all’albergo di Londra. La Regina di Grecia aveva allora venticinque anni ed era bellissima ed elegante, e fu molto ammirata al Quirinale in occasione del banchetto che il Re dette in onore di tutti questi ospiti augusti.

Però verso i Sovrani di Grecia la Corte fu soltanto cortese, con i Principi di Prussia si mostrò veramente affettuosa. A loro disposizione erano state poste quattro carrozze di Corte e il principe Umberto e la principessa Margherita li accompagnavano nelle gite, e offrirono loro una colazione sulla via Appia, e quasi ogni sera li convitavano a pranzo. La Principessa era anziana, piccola, tutta vivacità, e si mostrava sempre molto amica dell’Italia. Anche a Berlino andava a ogni ricevimento del conte di Launay e vi conduceva le nipoti. Il Principe, archeologo e artista, compiva il suo quindicesimo e ultimo viaggio in Italia. Dava, come diceva allora, l’addio alla terra classica delle arti. Da ognuno di questi viaggi riportava in Germania preziosi ricordi artistici e ne ornava il suo castello di Glinike, che pareva un museo di antichità. Egli parlava anche italiano e nel visitare gli scavi e i lavori della via Nazionale domandò al Cicerone perchè non vi erano alberi sul secondo tratto. Il brav’uomo non volle rispondergli che il Municipio non aveva voluto, e invento che i proprietari si erano opposti che vi venissero piantati minacciando di non fabbricare. «Bravo il Municipio! — rispose il Principe - accetta così facilmente la legge dai proprietari».

Altri ospiti, non principeschi, ebbe Roma nell’aprile. Venne qui da Torino la deputazione dei Veterani del 1848-49, guidata dal marchese di Villamarina, padre del marchese di Montereno e già ambasciatore a Parigi durante l’alleanza franco-italiana. Quella deputazione recava in dono la bandiera mandata dal Comitato dei Veterani di Torino al Comitato di Roma. La consegna del glorioso stendardo, che ricorda tanti fatti d’arme, si fece in Campidoglio, e appena il popolo lo vide sventolare, intuonò gl’inni patriottici che nel 1848 infiammavano i cuori italiani. Il marchese di Villamarina pronunziò un discorso commovente a nome dei 4000 veterani di cui si componeva il sodalizio torinese. «Questo stendardo - egli disse - è oggi simbolo di pace e di buona armonia con tutti.... pero sta scolpito nei cuori: Guai a chi lo tocca! Se mai venisse a taluno il solletico di volerci togliere la preziosa conquista, che ci costò tanto sangue e tanti sacrifizi.... di toglierci la cara, l’ambita nostra Roma, io non dubito che attorno a questo glorioso vessillo tornerebbe a formarsi l’Italia militare, come già si formò l’Italia indipendente».

Alle parole del marchese di Villamarina rispose il Sindaco, ricordando i sentimenti che legavano Roma a Torino e assicurando che la bandiera dei veterani sarebbe stata custodita con venerazione in Campidoglio, ara santa delle grandi memorie.

Altri parlarono e il popolo interrompeva quei discorsi acclamando a Roma e a Torino, legate dalle memorie del passato e dalla fede nell’avvenire della patria.