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Pagina:Emma Perodi - Roma italiana, 1870-1895.djvu/160

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Un grande avvenimento si compì fuori di Roma, ma la Corte, il Governo e il Parlamento vi assisterono e fu salutato con giubilo da tutta la nazione. Alludo al varo del «Duilio» la grande nave che iniziava il rinnovamento della marina da guerra, la nave che ha servito di modello a tante altre e che ci fu per molto tempo invidiata dalle altre nazioni.

Dopo che la Sinistra era salita al potere, Garibaldi tornava sulla scena animato da sentimenti benevoli verso il nuovo ministero. Il Bersagliere, che era il giornale del ministro dell’interno, pubblicava il 9 aprile infatti una lettera del Generale, diretta al Depretis. Quella lettera diceva:

«Dopoche Re Vittorio Emanuele ha dato nuova e solenne riconferma della sua fede allo Statuto Costituzionale ed al plebiscito della volontà nazionale, mutando i suoi consiglieri in ossequio al voto del Parlamento, ed attestando la sua fiducia in voi ed in altri miei amici pel governo dello Stato, debbono cessare le mie ripugnanze all’accettazione del dono, che a me fu fatto con spontanea generosità dalla Nazione e dal Re, e che mi porrà in grado di concorrere in prò di Roma alla spesa dei lavori del Tevere.

«Non mi resta dunque che esprimere pubblicamente all’Italia ed al Re la mia gratitudine ed invocare con tutte le forze dell’animo mio un compenso assai più splendido e gradito al poco che ho fatto pel mio paese, quello cioè che l’Italia ben governata, proceda ognora migliorando nelle condizioni di moralità, di libertà e di pubblico bene.

«G. Garibaldi».


Questa lettera non ebbe l’approvazione del partito repubblicano. Federico Campanella, capo di quel partito, pubblicava nel Popolo di Genova, un articolo in cui diceva: «che la sua povertà era un aureola di gloria che stendeva una pietosa nube sulle mancanze del di lui carattere» e più sotto continuava:

«Le furie monarchiche seppero tirar così a lungo, così forte e così bene, che a poco a poco dall’alto piedistallo in cui era, lo fecero scender giù giù, sino al loro livello. Arrivato fino a quel punto, gli fecero recitare un Credo monarchico della più pura ortodossia, lo assolsero dalle sue vecchie peccata repubblicane e, confortatolo con tutti i sacramenti del Bene Inseparabile, gli diedero finalmente la stretta fatale! Indi, straziato com’era, lo presentarono al popolo, esclamando con beffardo sogghigno: Ecce Homo!

«L’assassinio era consumato! Nelle mani di quei manigoldi.... (orribile a dirsi!) l’uomo eccezionale, il Cincinnato moderno, il sublime mendico, era sparito, ed altro non restava.... che...? un pensionato della monarchia!»


Il generale Garibaldi offeso, rispose a quella diatriba con la seguente lettera, diretta, al solito, alla Capitale:


«Caro Dobelli,

«Vogliate, vi prego, pubblicare le linee seguenti dirette al signor Campanella e compagni:

«Io giammai appartenni ai repubblicani da ciarle, pugnai sempre per le Repubbliche di fatto quindi non v’è defezione.

«G. Garibaldi».


Lo Zanardelli, dal ministero dei lavori pubblici, si dava premura di appagare le vedute del general Garibaldi, rispetto al disegno dei lavori del Tevere, e aveva anche chiamato a conferire al ministero i consiglieri comunali e provinciali amici del Generale, non sappiamo se coll’intento di rimuovere il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici dalla sua opposizione, oppure per indurre