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«Dichiaro di morire da buon cattolico. Duolmi se talvolta le risoluzioni che ho dovuto prendere hanno potuto spiacere alla persona del Sommo Pontefice; ma in tutti i miei atti non ebbi giammai intenzione di offendere la Chiesa Cattolica».

Quando il canonico Anzino con la stola e la pisside in mano entrò nella camera, vi trovò riuniti tutti i ministri. Dietro a lui entrarono il Principe Umberto e la Principessa Margherita, recando in mano una candela accesa, e s’inginocchiarono ai piedi del letto. La Principessa era vestita di nero e aveva la testa coperta da un velo nero.

Durante la cerimonia tutti piangevano; anche il Presidente del Consiglio, che era inginocchiato vicino al caminetto, non poteva trattenere i singhiozzi.

Il Re era pallido, ma calmo in mezzo a tanta desolazione. Egli stava seduto sul lato sinistro appoggiandosi a due guanciali. Portava una giacchetta da caccia di color bigio con molte tasche.

Appena il canonico Anzino ebbe comunicato il Re, tutti sfilarono accanto al letto per dargli l’ultimo saluto; il Re con lo sguardo ancora scintillante e pieno d’intelligenza, fissava ognuno e salutava con la mano.

Fuori della camera reale si ripeterono le scene di lacrime, tutti erano desolati di quel distacco.

Mentre il Re era agli estremi, giunse al Quirinale monsignor Marinelli, sacrista di Sua Santità; egli chiese agli ufficiali d’ordinanza notizie della salute del Sovrano, da parte del Papa, e domandò se poteva entrare in camera dell’infermo. Gli fu risposto che occorreva un permesso speciale perchè il Principe Ereditario aveva dato ordine che non fossero ammessi estranei. Monsignor Marinelli si ritirò senza chiedere il permesso, nè aggiunger parola.

Dopo una mezz’ora circa che il Re aveva ricevuto il Viatico, fu avvertito un gran peggioramento, e subito furono avvisati i Principi e i Ministri. Il Re volle cambiar posizione, si fece pallidissimo e parve che stesse par ispirare. Chiese allora da bere, e il canonico Anzino gli porse un bicchier d’acqua. Con la mano tremante prese il bicchiere e senza aiuto se lo accostò alle labbra. Ma dopo quello sforzo reclinò la testa, e la mano rimase abbandonata sul letto. Il dottor Bruno gli tastò il polso, e capi che la fine si avvicinava.

Il Principe Umberto entrò allora atterrito nella camera del Re e si accostò al letto col volto coperto di lagrime. Vittorio Emanuele fissò su di lui uno sguardo lungo, già vitreo, gli stese la mano e pronunziò questa sola parola: «Addio». Dopo il Re entrò in agonia e alle 2 e 30 spirò.

Erano nella camera al momento della morte il principe Umberto, il conte Mirafiori, il Presidente del Consiglio, on. Depretis, il conte Visone, il comm. Aghemo, l’on. Correnti, il ministro della guerra general Mezzacapo, il cav. Ansaldi, aiutante di camera, e i colonnelli Giudotti e Carenzi, ufficiali d’ordinanza di servizio, il canonico Anzino che recitava le preghiere degli agonizzanti e i medici. Il volto di tutti i testimoni di quella scena funerea era coperto di lagrime; nella piccola biblioteca attigua si affollavano molti servi devoti, egualmente affezionati; nei corridoi del palazzo vagavano muti, come inebetiti, i famigliari.

La piazza del Quirinale era affollata di popolo trepidante, che appena vide abbassare la bandiera della torre, corse per la città recando la triste notizia. I negozi si chiusero tutti non in seguito a ordine ricevuto, ma come spontanea manifestazione di cordoglio, schiettissimo, universale. Roma faceva un plebiscito di dolore.

L’effetto primo che l’annunzio della morte del Re produsse a Roma, fu di sgomento. Pareva che lo sparire di lui ponesse in dubbio tutte le conquiste fatte sotto il suo nome e sotto la sua bandiera; pareva che la grande famiglia italiana, di cui era il padre riconosciuto ed amato, do-