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in una sola volta ed egli venne condannato a 42 mesi di carcere e a 1400 lire di multa. In marzo si fa il processo all’Assise contro Angelo Tognetti, Ernesto Capponi, Tognani, Piergentili e Nelli. Il primo era accusato di mancato omicidio volontario nella persona di Coccapieller, gli altri di complicità. Forse non ci fu un processo, neppure quello Fadda, che destasse tanta curiosità a Roma e sapesse mantenerla per così lungo tempo. Il pubblico si componeva di amici del Tognetti, attaccato brutalmente dall’Ezio II e indicato da quel giornale col nomignolo di Sussurretta, e di quelli del Coccapieller, amici sui generis che sogliono schierarsi sempre dalla parte di chi suona a vituperio. Si seppe il come e il quando i tognettisti volevano fare uno sfregio sporco al tribuno e, fallito il tentativo, perchè egli invece di andare a piazza Colonna s’era rintanato all’osteria di via Vittoria, erano andati a scovarlo lì. Fra i testimoni sfilò la massoneria, sfilarono il questore Latino Mazzi, ispettori, professori, fra i quali Paolo Mantegazza, popolani, una quantità di gente insomma. Coccapieller parlò poco, ma anche dinanzi ai giurati trovò modo di accusare, e disse che Adriano Lemmi, il Petroni, il Parboni e il Dobelli erano l’anima di quell’affare, che volevano farlo sparire, perchè lui faceva la guerra a tutti quanti avevano abusato del nome di Garibaldi e di Vittorio Emanuele. Fece anche lì una meschina figura. La sentenza fu pronunziata; i giurati ammisero nel Tognetti l’intenzione omicida e lo condannarono a cinque anni di relegazione; gli altri coimputati furono tutti assolti.
Coccapieller capì, e capirono i suoi istigatori, che quel processo aveva peraltro sminuita la sua popolarità, e per riconquistarla si abbrancò alla tavola di salvezza, che gli offriva il progetto della esposizione mondiale. Durante il processo il tribuno aveva presentato una interrogazione alla Camera al ministro dell’interno e a quello di agricoltura per stabilire che l’esposizione mondiale dovesse farsi a Roma, e possibilmente nel 1888. E per avvalorare la sua domanda lanciò insulti ai consiglieri comunali, e voleva leggere un articolo dell’Ezio II, cosa che il presidente non permise. Allora incominciò a dire che Roma era un pantano, che Roma era stanca, e nonostante i rumori e le scampanellate, lesse l’articolo.
L’on. Depretis gli rispose calmo che le condizioni finanziarie non gli permettevano d’impegnare il Governo; che peraltro se quelle condizioni fossero migliorate, l’esposizione si sarebbe fatta.
Alla Camera intanto era pervenuta domanda del Procuratore del Re di procedere per libello famoso contro il deputato Coccapieller, e la Camera lo concesse.
L’idea della esposizione si era fissata in capo al tribuno, e nel comizio al Corea, nel quale presentò Ricciotti Garibaldi come candidato a un collegio di Roma, in sostituzione del Lorenzini, che si era dimesso, fece uno zibaldone di esposizione e di elezioni, di farabutti e di grandezza di Roma da destar pietà. Pare impossibile che fra gl’intervenuti non vi fosse una persona sola di buon senso per istrappargli da dosso il manto nel quale cercava di drappeggiarsi; e per non ritenere tutti quelli che assistevano al comizio privi del ben dell’intelletto, giova ammettere che fossero ipnotizzati da tanta scempiaggine.
Subito dopo il tribuno si sente arrivare una doccia fredda sulla testa: la corte d’Appello rigetta il suo ricorso nella causa mossagli dal di Mauro; ma egli non smette la tracotanza, anzi invita il popolo a riunirsi appunto in piazza del Popolo per andare al Quirinale a recare un indirizzo alla Regina affinchè si ponga lei a capo della sottoscrizione nazionale per l’esposizione, e quando si vede circondato dai suoi fidi, li arringa, chiama Roma la madre naturale d’Italia e la Regina la madre morale. Aggiunge che non possono andare al Quirinale perchè il Governo non vuole dimostrazioni in piazza, e conduce i convenuti all’osteria dell’Ezio II, che era appunto sulla piazza. Aveva preparato la lettera e la lesse.