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lavori del Foro Romano, e andò una mattina da Torquato Castellani nel suo palazzo in piazza Poli per esaminare la collezione lasciatagli dal padre Alessandro, morto alcuni mesi prima a Napoli e cremato qui. Il Principe fu ricevuto da Torquato e dalla signora Adele Castellani.

Federigo Guglielmo andò a visitare donna Laura Minghetti e la figlia di lei, contessa Dönhof. Il signor di Keudell offri al Principe ed ai Sovrani una colazione nel palazzo dell’ambasciata germanica, al quale furono invitati i ministri, il marchese e la marchesa Lavaggi, il duca e la duchessa Sforza Cesarini, il cav. Minghetti, donna Laura e la contessa Dönhof.

Il 20 andò alla Camera nella tribuna diplomatica. Discutevasi il bilancio dei lavori pubblici, e nell’aula era appena ristabilita la calma, turbata da gridi partiti dalla tribuna pubblica di «Viva Trieste! e da bigliettini verdi lanciati nell’emiciclo, da quella riservata. I gridi erano stati emessi da un giovinetto, un certo Baldini, il quale disse alle guardie: «Eccomi, eccomi, non scappo», i bigliettini erano stati lanciati da un certo Luigi Rempicci, compositore nello stabilimento Bontempelli, e contenevano il testamento di Oberdank, del quale ricorreva in quei giorni la data della morte. Negli anni precedenti il Cordigliani aveva lanciato sassi nell’aula, e il Maccaluso un revolver; ma quei fogliettini verdi commossero più che non i selci e l’arme.

Il Principe Imperiale partì in forma solenne, e a Roma, che gli fece una di quelle ovazioni che non si dimenticano, non tornò più; dal confine egli mandò al Re un fraterno telegramma, che avvalorava le dichiarazioni fatte dal Mancini alla Camera sulla unione perfetta della Germania con l’Italia.

Alla riapertura dell’anno scolastico si era inaugurato, senza pompa, il Collegio Militare nel palazzo Salviati alla Lungara, e il ministro della pubblica istruzione aveva istituite sei nuove scuole tecniche femminili.

Anche la ferrovia di Porto d’Anzio era pronta per essere aperta al pubblico, e ovunque si abbattevano case e si gettavano le fondamenta di altre. Sotto il piccone demolitore era caduto anche il Caffè del Parlamento; era condannato in parte il palazzo Strozzi; scomparivano le case di via de’ Cesarini, e sorgevano i palazzi di piazza Vittorio Emanuele, quello Caprara, il tempio Inglese in via del Babuino, e quello Valdese in via Nazionale.

L’inaugurazione fu fatta il 25 novembre. I Valdesi avevano mandato già, fino dal 1870, un loro pastore a Roma. Il primo era stato il rev. Matteo Prochet, il secondo il rev. Augusto Meille, ma vi erano rimasti poco. Più a lungo vi rimase il rev. Giovanni Ribetti, che nel decennio della sua permanenza predicò indefessamente il Vangelo, prima in via Gregoriana, poi in una sala in via delle Vergini, e per ultimo in via dei Serpenti, vedendo di anno in anno farsi sempre più numerose le riunioni.

Nel 1883 era a Roma, oltre il presidente del Comitato d’evangelizzazione, il rev. Daniele Buffa, che vi è rimasto fino al 1894.

Da parecchi anni il tempio era in costruzione, e dopo superati infiniti ostacoli si potè inaugurare con il concorso di tutti i pastori delle chiese evangeliche del mondo. L’inaugurazione fu semplice e austera, come ogni cerimonia dell’antica chiesa, che ha conservato ai piedi delle Alpi le sue primitive tradizioni. I Valdesi ebbero in quel giorno testimonianze di sincera simpatia da ogni città italiana, e anche i giornali di Roma furono larghi di elogi per l’opera loro.

Sul finire dell’anno 1883 a Roma non si pensava ad altro che al grandioso pellegrinaggio italiano e dopo quasi sei anni che Vittorio Emanuele era sparito dalla scena del mondo, regnava ancora nel ricordo di tutti.