Pagina:Emma Perodi - Roma italiana, 1870-1895.djvu/378

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La Camera si riunì il giorno 11 per discutere i bilanci; si era già alla metà dell’esercizio e non era più il caso di esaminarli minutamente, eppure su ognuno i deputati si preparavano a dar battaglia, perchè la nuova legislatura aveva ereditata dalla precedente la piaga della dissidenza, che non dava un giorno solo di tregua al Governo. Le cose peraltro andarono abbastanza bene finchè non incominciarono a giunger notizie della marcia di Ras Alula verso i nostri possedimenti africani. Questo avvenne il giorno 23 e l’on. de Renzis subito interrogava il ministro degli esteri sullo stato della nostra difesa. Il conte di Robilant gli rispose che non era il caso d’inquietarsi se «quattro predoni» venivano a molestarci, mentre assai più gravi questioni si agitavano in Europa. Quella frase infelice dei «quattro predoni» fu funesta al ministro. Ormai in Italia si viveva trepidanti per la sorte dei nostri soldati d’Africa, perchè i giornali, e specialmente la Tribuna, non avevano fatto altro, da due anni, che toglier la fiducia nei capi, e dimostrare che si procedeva alla cieca. Il 25, il general Genè, con un telegramma, chiese 600 uomini di rinforzo per fare una dimostrazione militare, qualora fosse necessaria, e subito Robilant fu interrogato al Senato su quel telegramma. Egli dichiarò che la nostra posizione a Massaua era fortissima, e che non vi era, come dicono i francesi, pèril dans la demeure. Alla Camera l’on. Rudinì interrogò il Governo sull’autenticità del telegramma del general Genè e sugli intendimenti suoi rispetto all’Africa. A Montecitorio le dichiarazioni del ministro degli esteri furono più ampie che a palazzo Madama. Egli disse che non voleva far politica di espansione, che erano esagerate le preoccupazioni, e consigliò di discorrere meno dell’Africa e di Ras Alula, ripetendo che si trattava di «quattro predoni». Il ministro della guerra annunziò che il 2 febbraio sarebbero partite da Napoli per Massaua quattro compagnie di fanteria, una di zappatori del genio e una sezione di artiglieria: in tutto 750 uomini comandati dal maggiore Olivetti. Il 26 i dispacci annunziavano che Ras Alula era sempre a Ghinda, dopo non si seppe più nulla fino al 1° febbraio, ma non per questo il paese temeva meno, ed era meno trepidante.

Il 10 febbraio il presidente del Consiglio in principio di seduta lesse alla Camera un dispaccio del general Genè, che diceva che il 25 Ras Alula aveva attaccato Saati, ma ne era stato respinto dopo tre ore di combattimento; che il 26 tre compagnie e cinquanta irregolari partiti da Monkullo per vettovagliare Saati erano stati attaccati per via, e che dopo parecchie ore di combattimento erano stati distrutti. A questo punto della lettura il presidente del Consiglio fu interrotto dalle esclamazioni irose della estrema sinistra; tutta la Camera era profondamente turbata. Ristabilito il silenzio l’on. Depretis continuò a leggere il dispaccio annunziante la funesta notizia. Il Genè diceva che 90 feriti erano stati già ricoverati all’ospedale di Massaua, e che egli aveva ritirati i posti di A-ua, Saati e Arfali, e che il Ras si era ritirato a Ghinda forse per le gravi perdite, o per attendere rinforzi e l’arrivo del Negus, che si diceva in marcia.

Questa seconda parte del dispaccio produsse una impressione profonda e le esclamazioni e i gridi dei deputati d’opposizione echeggiavano sinistramente nell’aula.

L’on. Depretis, sempre calmo, annunziò che in seguito a quelle notizie «presentava un progetto di legge per autorizzare la spesa.... ). A questo punto l’on. Andrea Costa urlò: «Per richiamare...» e il presidente del Consiglio continuò: «straordinaria di cinque milioni di lire sui bilanci della Guerra e della Marina per spedizione di rinforzi». Il Depretis chiese che il progetto fosse d’urgenza affidato a una commissione nominata dal presidente della Camera, e il Baccarini, che non aveva dimenticato «i quattro predoni» del Robilant, propose che fosse «mandato un saluto a quei prodi che combattono un nemico meno spregevole di quello che ce lo rappresentava il ministro degli esteri».