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Mentre il Re pronunziava questo alto discorso, che racchiudeva tutto il programma della Monarchia di Savoia rispetto al Papato, il popolo stipato sulla piazza Pitti, faceva udire lunghi ed insistenti applausi. Le acclamazioni si fecero così fragorose, che Vittorio Emanuele dovette più volte presentarsi al balcone col duca di Sermoneta a destra, e la fulgente principessa di Piemonte a sinistra. Non è facile dimenticare l’entusiasmo col quale ogni volta che si presentava era accolto il Re; le musiche sonavano la marcia reale, il cannone tuonava, la campana della Signoria empiva l’aria di lunghi rintocchi, il popolo esultava, pareva di essere tornati al 1848.
La deputazione romana e le autorità municipali da Pitti si recarono in piazza della Signoria per lo scoprimento della lapide posta sotto la loggia dell’Orcagna, in memoria dell’unione di Roma all’Italia.
La lapide vi è tutt’ora e vi rimarrà sempre. Quando fu scoperta, il duca di Sermoneta, commosso dalla solennità della cerimonia, proruppe nel grido di «Viva Firenze!» al quale gl’invitati, che erano sotto la loggia, e tutta la folla che gremiva la piazza, rispose col grido, che era da più giorni sulle labbra di tutti: «Viva Roma!»
La lapide dice:
MEMORIA AI POSTERI
CHE IL II OTTOBRE MDCCCLXX
I ROMANI
PER UNANIME VOTO
NEI PRIMI COMIZI DELLA LIBERTÀ
SOCIANDOSI AL REGNO D’ITALIA
NE COMPIRONO L’UNITÀ
Scoperta la lapide, la deputazione romana andava al cimitero di San Miniato a deporre una corona sulla tomba del tenente Paoletti, morto per Roma.
Il giorno stesso dell’accettazione del plebiscito per parte del Re, compariva nella Gazetta Ufficiale un decreto che riuniva le province romane al regno d’Italia e conservava la dignità, la inviolabilità e tutte le prerogative personali al Sommo Pontefice. Quel decreto aveva un 3° articolo così concepito:
«Con apposita legge verranno sancite le condizioni atte a garantire anche con franchigie territoriali l’indipendenza del Sommo Pontefice e il libero esercizio dell’autorità spirituale della Santa Sede».
Quelle «franchigie territoriali» e le parole «rispetto al Pontefice» pronunziate dal Re nel ricevere il Plebiscito, fecero una dolorosa impressione sui Romani, e attenuarono la letizia di quel giorno di festa. Essi credettero che quelle parole, pronunziate forse per calmare i cattolici stranieri, e quell’articolo, compreso nel decreto forse per chiudere la via alle proteste del Vaticano, mettessero in dubbio la loro indipendenza. Ma presto si calmarono.
Intanto il giorno 9 stesso il colonnello Galletti, aiutante di campo del Re, portava il Collare dell’Annunziata al duca di Sermoneta, e riferendosi alle parole del Sovrano, diceva nel presentarlo:
«Se col Plebiscito romano la corona d’Italia acquista la più preziosa sua gemma, il Re con questo atto di suprema distinzione è ben lieto di poter annoverare nella sua reale famiglia uno dei più illustri e benemeriti rappresentanti della Eterna Città».