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Fra i concorrenti furono premiati Vincenzo Vismara di Milano e Daniele Corbellini di Pavia.
La sera fu data all’Argentina l’Aminta a cura della Società «Soccorso e Lavoro».
Il 28 aprile i Sovrani partirono per inaugurare l’esposizione artistica di Venezia e il giorno 8 maggio la Gazzetta Ufficiale pubblicava il decreto di scioglimento della Camera e quello che ordinava la convocazione dei comizi elettorali per il 26 e fissava i ballottaggi al 2 giugno.
Gli elettori del IV collegio di Roma offrirono la candidatura a Francesco Crispi, e i radicali gli contrapposero come protesta quella del De Felice.
In mezzo alla lotta elettorale vivissima, sorse un pettegolezzo fra i giornali clericali e liberali, per un brindisi che si voleva il cardinal Hohenlohe avesse portato al presidente del Consiglio durante un pranzo dal barone Blanc, al quale assistevano ambedue. Il cardinale invece non aveva aperto bocca; soltanto alzando la coppa dello Champagne si era rivolto al Crispi.
Prima che si riunissero i comizi, il Papa diresse una lettera al Cardinal Vicario con la quale raccomandava ai cattolici di astenersi dalle elezioni, uniformandosi alle disposizioni della Sacra Penitenzieria e ai successivi decreti del Santo Uffizio.
All’Argentina vi fu un banchetto offerto all’on. Crispi. Egli non fece un programma, espresse una giusta indignazione contro le calunnie che gli si lanciavano contro; disse che la lotta era impegnata fra la Monarchia e l’Anarchia e parlando dei partiti d’opposizione concluse:
«Ma se pur vincessero, essi non riuscirebbero a costituire un governo qualsiasi, nè buono nė pessimo. Ma non vinceranno».
E non vinsero in Italia, ma a Roma le elezioni non furono tutte favorevoli al Governo.
Nel I collegio fu eletto Pilade Mazza, di opposizione; nel II il colonnello Santini, ministeriale; nel III Guido Baccelli, contro Andrea Costa; nel IV Crispi, contro De Felice, ma con viva lotta; nel V riuscì il Barzilai, pure d’opposizione, contro il duca Grazioli-Lante.
Mentre più viva ferveva la lotta elettorale, furono pubblicati i libelli del Cavallotti contro il Crispi, molto strombazzati, molto ritardati e che non produssero tutto l’effetto voluto.
11 10 giugno si riaprì la Camera col discorso Reale. Ne riferisco la parte più saliente:
«Ma vi è una resposabilità che preme egualmente su tutti i buoni, un’opera a cui tutti siamo chiamati: quella della pace sociale. Il mio governo, custode dell’ordine, ha dovuto tutelarlo con la forza, ma esso è meco concorde nel preferire alla forza l’amore. E come alla repressione è seguita e seguirà la clemenza in misura ancor più larga, appena dia garanzia di spontanea stabilità l’ordine istaurato, così io intendo che una efficace persuasione venga agli incoscienti e ai traviati dalla provvidenza di una legislazione per cui abbia sempre maggiore e più effettivo significato quel concetto della fratellanza umana, alla quale mirerà anche l’apostolato di una scuola educatrice.
«Nel bene degli umili ho riposto, voi lo sapete, la gloria del mio regno; e il miglior modo per associarsi alle gioie della mia famiglia, ora allietata da un fausto evento, sarà il far si che nella grande famiglia italiana più non siavi argomento nè di violenza, nė di odii».
Il fausto evento al quale alludeva il Re, erano le nozze che si dovevano celebrare a Stowe-House fra il duca d’Aosta e la principessa Elena d’Orleans. Altre allusioni conteneva il discorso reale; quella alla presenza della squadra italiana alla inaugurazione del canale del Baltico, e quella dell’amicizia con l’Imperatore. Il Re concluse:
«Celebrandosi il primo giubileo dell’Italia nostra, in questa terza ed eterna Roma, ove fu dato a mio padre coronare l’edificio incrollabile della nostra unità nazionale, sono sicuro di non dirigervi indarno l’appello, che mercè l’opera vostra, l’anno memorando volga ormai pel bene del popolo italiano.