Pagina:Eneide (Caro).djvu/284

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[1218-1241] libro v. 248

Gli strinse, gli gravò, gli chiuse alfine.
     A pena avean le prime gocce infusa
1220La lor virtù, che ’l buon nocchier disteso
Ne giacque: e ’l dio col suo mentito corpo
Sopra gli si recò, pinse e sconfisse
Un gheron de la poppa, e lui con esso
E col temon precipitò nel mare.
1225Nè gli valse a gridar, cadendo, aita,
Chè l’un qual pesce, e l’altro qual augello,
Questi ne l’onda, e quei ne l’aura sparve.
Nè l’armata ne gio però men ratta,
Nè men sicura; chè Nettuno stesso,
1230Come promesso avea, la resse e spinse.
     Era de le Sirene omai solcando
Giunta agli scogli perigliosi un tempo
A’ naviganti; onde di teschi e d’ossa
D’umana gente si vedean da lunge
1235Biancheggiar tutti. Or sol, di canti invece,
Se n’ode un roco suon di sassi e d’onde.
Era, dico, qui giunta, allor ch’Enea
Al vacillar del suo legno s’accorse,
Che di guida era scemo e di temone:
1240Ond’egli stesso, infin che ’l giorno apparve,
Se ne pose al governo, e ’l caso indegno


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