Pagina:Eneide (Caro).djvu/338

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[1295-1319] libro vi. 297

1295D’opime spoglie e quanto agli altri avanza.
Quest’è quel generoso, ch’a grand’uopo
Vien di Roma a domare i Peni, i Galli,
E del gallico duce i fregi e l’armi
La terza volta al gran Quirino appende.
     1300Qui vide Enea ch’un giovinetto a pari
Gli si traea, ch’era d’arnesi e d’armi,
E via più di beltà vago e lucente;
Se non che poco lieta avea la fronte,
E chino il viso. Onde rivolto al padre,
1305E chi, disse, è costui che l’accompagna?
Saria de’ figli o de’ nipoti alcuno
Del gran nostro legnaggio? E che bisbiglio
E che mischia ha d’intorno? O quale e quanto
Di già mi sembra! Ma gli veggio al capo
1310D’atra notte girar di sopra un nembo.
     Anchise lagrimando gli rispose:
Amaro desiderio il cor ti tocca
A voler, figlio, un gran danno, un gran lutto
Udir de’ tuoi. Questi a la luce a pena
1315Verrà, che ne fia tolto. O dii superni,
Troppo parravvi la romana stirpe
Possente allor che in sul fiorir preciso
Ne fia sì vago e sì gentile arbusto.
O che duolo, o che pianto, o che funèbre


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