Pagina:Eneide (Caro).djvu/615

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574 l’eneide. [245-269]

245A tutte l’altre che di Giove, in Lazio,
L’ingrato letto han di salire osato:
E come volontier del cielo a parte
Meco t’ho posta. Ascolta i tuoi dolori,
Perchè di me dolerti unqua non possa.
250Finchè di Lazio la fortuna e ’l fato
Me l’han concesso, io prontamente e Turno
E la tua terra e i tuoi sempre ho difeso.
Or veggio questo giovine a duello
Con disegual destino esser chiamato:
255Veggio il dì della Parca e la nemica
Forza che gli è vicina. Io questo accordo,
Questa pugna veder con gli occhi miei
Per me non posso. Tu, se cosa ardisci
In pro del tuo germano, ora è mestiero
260Che tu l’adopri; e puoi farlo, e convienti.
Fállo: e chi sa che ’l misero non cangi
Ancor fortuna? A pena avea ciò detto,
Che Iuturna gemendo e lagrimando
Tre volte e quattro il petto si percosse.
265A cui Giuno soggiunse: E’ non è tempo
Da stare in pianti. Affretta; e da la morte
Scampa, se scampar puossi, il tuo fratello,
O turbando l’accordo, o suscitando
Nuova cagion di mischia e di tumulto.


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