Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/101

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parte prima. 93

nelle tenebre, e, quanto a voi, umana semenza, a voi si confà il giorno alternato con la notte.

Fausto. Tant’è, io voglio.

Mefistofele. E questo è bello a udire. Se non che sorge un dubbio a darmi noia: il tempo è breve, l’arte è lunga. Or odimi: vuoi tu prendere il mio consiglio? Cèrcati un poeta il quale con vagabonda fantasia accumuli sul tuo onorato cucuzzolo tutte le più mirabili doti; il coraggio del lione, la velocità del cervo, il bollente animo degl’Italiani e la longanimità de’ Settentrionali. Egli vorrà studiare il segreto, acciocchè tu sii ad un tempo magnanimo ed astuto; e l’innamori coll’improvvido ardore della gioventù, e ti disnamori a tua voglia. E anch’io co noscerei volentieri un tanto personaggio, e gli porrei nome ser Microcosmo.

Fausto. E che sono io dunque, se non ho mai da poter contentare quel mio lungo, affannosissimo desiderio di essere, come a dire, la somma e la corona di ogni creatura?

Mefistofele. Tu sei alla fin fine — quello che sei. Pónti in capo una parrucca con millantamila ricci, e a’ piedi degli zoccoli alli tre gran palmi, e tu rimarrai pur sempre quello che sei.

Fausto. Ahi, ben m’avveggio che indarno ho sperato di tesoreggiare in me tutte le eccellenze dell’umana natura: allorchè stanco io desisto dalle mie ambizioni, sento che non mi è nato dentro nessun novello vigore; io non sono ingrandito di un capello, nè più prossimo di un nonnulla all’infinito.

Mefistofele. Mio buon signore, voi vedete le cose come si sogliono ordinariamente vedere da tutt’uomo: