Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/100

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92 fausto.

lità; e l’inferno prepari i portenti che sa con le arcane sue arti operare; buttiamoci dove più incalza la corrente del tempo; voliamo con la ruota della fortuna; e dolore e piacere, conseguimento e sazietà si avvicendino, quanto sanno, senza riposo. L’uomo non dimostra la sua natura fuorchè in un perpetuo affaccendarsi.

Mefistofele. Nè a voi è posto termine alcuno. Piacciavi assaporare un po’ di tutto: pigliatevi al volo quel che vi si para innanzi, che è l’arte perchè faccia buon pro. Sol vuolsi uscire di timidezza e avere le mani pronte.

Fausto. Ben sai ch’io non miro già a darmi buon tempo. Io voglio l’ebbrezza, — la vertigine; voglio le voluttà che generano tormento; l’odio che germoglia dall’amore; gl’impedimenti che ne dànno alacritå. Il mio petto, guarito oramai della febbre della scienza, dee stare aperto a tutti gli affanni. Voglio nel mio profondo sperimentare io solo quanto è ripartito fra tutti i viventi; abbracciare con la mente quanto vi è d’infimo e di sommo nell’umanità; godere di tutti i suoi beni, patire tutti i suoi mali; tanto distendermi da comprenderla tutta in me; farmi essa, in somma, e con essa finalmente naufragare.

Mefistofele. Oh, credi a me, che ho per più migliaia d’anni rimasticato questo duro cibo, credi a me, che nessun mortale dalla culla al feretro seppe mai digerire tal vecchio lievito. Abbi fede in uno di noi; questa ampiezza di vita, questo tutto che tu vuoi per te, non si appartiene che a Dio: egli si spazia nell’inestinguibile luce, noi ha sommersi