Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/137

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parte prima. 129

Fausto. In non so, — debb’io?

Mefistofele. Ne domandale? Vi pensereste forse di serbarvelo per voi quel tesoro? S’ell’è così, io vi consiglio che lasciate stare i dolci amori; serbate il vostro tempo ad altro, che è prezioso, il sapete;e risparmiate a me le inutili fatiche. Ma io voglio credere che non siate così misero! Io mi do mille impacci, meno le mani e i piedi... (Pone la cassetta nell’armadio, e lo riserra a chiave.) — Andiamcene!. — per porvi la fanciulla, nelle braccia; e voi state lì tutto di un pezzo, come se aveste indosso la toga del professore, e vi fossero innanzi in persona la Fisica e la Metafisica. Su, andiamo! (Partono.)

Margherita, con lucerna in mano. Che arsura è qui dentro! come ci sa di chiuso! (Apre la finestra.) Eppure fuori è fresco anzi che no. Non so, come.... Vorrei che mia madre tornasse tosto a casa. — Io tremo tutta dal capo a’ piedi. — Oh, io son pur la pazza e timida donnicciuola! (Ella si mette a cantare intanto che si spoglia.)

           V’era in Tule un re che tenne
        Sino al cenere la fè;
        La sua amante a morir venne,
        E una tazza d’òr gli diè.
           Nulla in pregio ebbe mai tanto;
        La vòtava a mensa ognor,
        E in votarla avea di pianto
        Gli occhi gravidi e d’amor.
           E quand’ei pur venne a morte
        Le sue ville numerò,
        Agli eredi le diè in sorte,
        Ma la tazza riserbò.