Vai al contenuto

Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/148

Da Wikisource.
140 fausto.

Fausto. Cessa: usciranno! — Allorchè io sento, e al mio sentire, al tumultuare del mio petto io vorrei pur dare un nome, e non gliene trovo alcuno; e allora trascorrendo coll’ansia dell’anima il cielo e la terra afferro ogni più alta parola; e la fiamma che mi arde, io la dico immensa ed eterna; — forse ch’io mi trastullo diabolicamente in menzogne?

Mefistofele. Io ho pertanto ragione.

Fausto. Odi, e nota ben questo, — nè voler più mungermi, te ne prego, il fiato dal polmone. — Chi vuol avere ragione, purchè non gli muoia la lingua in bocca, egli l’avrà indubitabilmente. Ma andiamo, chè oramai tu mi hai tolto il capo. Tu hai ragione, perch’io mi sto nelle tue mani.


GIARDINO.


MARGHERITA appoggiata al braccio di FAUSTO, MARTA

con MEFISTOFELE, passeggiando su e giù.

Margherita. Ben veggo ch’ella vuol usarmi cortesia; si umilia per farmi arrossire. I viaggiatori son soliti a mostrare condiscendenza, e pigliar per bene ogni cosa; ma io so che il mio povero discorso non può intertenere un uomo di tanta sperienza.

Fausto. Un tuo sguardo, una tua parola, mia cara, mi son più soavi che non tutta la saviezza che può insegnare il mondo. (Le bacia la mano.)

Margherita. Deh, non faccia! Come può ella degnarsi di baciare la mia mano, che è sì ruvida e